25 November 2007

Faites ce que je dis, pas ce que je fais [suite]

Recension levada d'Ousitanio Vivo n°326 del 26 d'octòbre de 2007

Fabrizio Bartaletti, I TOPONIMI COME STRUMENTO PER CONSERVARE O CANCELLARE L'IDENTITÀ CULTURALE E NAZIONALE: IL CASO DELL'ISTRIA, DELLA VAL ROJA E DEL BACINO DEL VARO, in Miscellanea di storia delle esplorazioni, XXXII, pagg. 155-218, Genova 2007.
Il saggio di Fabrizio Bartaletti, docente di geografia all'Università di Genova e collaboratore di O.V., sviluppa un tema già da lui brevemente affrontato in un articolo sul nr. 320 del nostro giornale.
Si tratta appunto del cambiamento dei toponimi in funzione dell'assimilazione politica e culturale che gli stati dominanti operano sulle minoranze linguistiche e più in generale sui territori oggetto di controversie. La convinzione, sacrosanta, di Bartaletti è che “i toponimi siano dei nomi propri di luogo, e in quanto tali non possano essere tradotti o adattati «d'ufficio» (e per legge) in altre lingue” (pag. 157).
Eppure l'aggressione sui toponimi è una delle forme principali nel processo di “snazionalizzazione” (un tempo si diceva: colonialismo) che gli stati europei hanno attuato, per esempio sui popoli delle Alpi. Particolarmente interessante risulta, dal nostro punto di vista occitano, la vicenda della francesizzazione forzata della Val Roja dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Lo studio offre dunque l'occasione per ripercorrere alcune tappe di quella tragedia dimenticata. “Nell'aprile del 1945, i sindaci di Tenda e Briga furono destituiti da un nucleo del Comité, e i dipendenti comunali invitati a «optare» per la Francia o ad andarsene: sono gli stessi metodi usati a Bolzano dal fascista Ettore Tolomei nei confronti del sindaco di Bolzano Perathoner, degli impiegati comunali e degli insegnanti” (pag. 193). Dopo un plebiscito farsa, svolto con metodi intimidatori e privo di qualsiasi elemento di segretezza, “il primo maggio 1945 fu interdetta la lingua italiana, chiuse le scuole italiane, e alle poche decine di «non votanti» fu ridotta la razione di alimenti, l'8 maggio fu arrestato il direttore della centrale idroelettrica di San Dalmazzo, che aveva incitato i propri dipendenti a resistere e a restare fedeli all'Italia” (ib.). “Dopo il Trattato del 10 febbraio 1947, emigrarono dai due comuni circa 700 abitanti che avevano «optato» per l'Italia, posti dinanzi al bivio se restare nel luogo natio a prezzo di abbandonare lingua e cultura, o mantenere queste ultime a prezzo di lasciare la «piccola patria»” (ib.).
In seguito “la francesizzazione si è attuata soprattutto col sistema scolastico, con insegnamenti impartiti in lingua francese, senza alcun rispetto per le minoranze italiane, provenzali od occitane, e con la trasformazione dei toponimi” (pag. 195). Trasformazione che come al solito è al limite del grottesco, con la Madonna del Fontan a Briga che diviene Notre Dame des Fontaines (al plurale), con Penna che il Regno Sardo muta in Piena nel 1862 e la Francia in Piène, o col toponimo Finestre mutato leggermente in Fenestre, “che in francese non significa nulla, allo scopo di rimescolare le carte in tavola e dare un'impressione complessiva di «francesità»” (pag. 196). Nel complesso, rispetto al “metodo Tolomei” applicato in Sud Tirolo, il “metodo francese” risulta secondo l'autore “più sottile, lascia tracce meno evidenti, regge bene anche in un regime democratico e alla lunga dà l'impressione che la realtà sia quella rappresentata sulle carte e nei cartelli stradali, e cioè quella di una regione francese con qualche «curiosità» dialettale” (ib.). Un'operazione simile viene condotta anche sui nomi di battesimo, molti dei quali vengono cambiati anche ai defunti: ecco che su un monumento di Briga il colonnello italiano Giovanni Pastorelli, nato a Nizza nel 1859, diviene Jean, nato a Nice.
Lo studio di Bartaletti propone poi, sulla base di un'accurata ricerca cartografica e bibliografica, il ripristino di 276 toponimi tradizionali nel bacino del Roja e del Varo. Certo rimane aperta la discussione se per “toponimi tradizionali” si debbano intendere quelli ascrivibili alla precedente dominazione statale, in questo caso il Regno Sabaudo di lingua (ufficiale) italiana, oppure quelli espressi dall'idioma locale, qualunque sia il suo statuto (dialetto, lingua minoritaria o altro). Quello che è certo, e le minoranze linguistiche lo hanno imparato sulla propria pelle, è che “i nomi di luogo non sono pura forma, ma sostanza” (pag. 216).

Diego Anghilante

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