01 April 2008

Encore sur le Tibet / Ancora Tibet

Ce qui me désespère, c'est de voir que même des Chinois a priori ouverts et de bonne foi relaient le discours du gouvernement [rappelons-le : autoritaire et non démocratiquement élu] de Pékin.
Le cœur du problème, pour moi [ce n'est pas de moi, je l'ai lu je ne sais plus où], c'est que (intellectuellement parlant) les Chinois vivent au XIXme siècle, à l'époque des nationalismes, alors que nous, nous vivons au XXIme siècle. Malgré quelques petites résurgences de-ci de-là, le patriotisme, la ligne bleue des Vosges, les méchants Boches, nos ancêtres les Gaulois, c'est ringard, c'est mort et enterré — d'autant plus que nous avons gagné toutes les dernières guerres et donc nous n'avons pas de problèmes de ressentiment chauvin ou d'irrédentisme. Les Chinois, eux, semblent sortir du film Hibernatus : on les a congelés au XIXme siècle, à l'époque où les puissances occidentales les avaient humiliés et pillés, et ils ont ce ressentiment très fort et cette envie de revanche. À plus ou moins juste titre, ils ont également l'impression que l'Occident a deux poids deux mesures vis-à-vis d'eux.

Alors que faire pour sortir du dialogue de sourds ? Pour moi, il est essentiel que les Chinois se dessillent les yeux par eux-mêmes. Plus on insistera sur le Tibet, plus ils s'arc-bouteront sur leurs certitudes d'être « persécutés » par les méchants media occidentaux à la solde de la « clique » du Dalai Lama ! Il faut donc soutenir des personnes comme Yáng Chūnlín ou Hú Jiā (http://www.guardian.co.uk/world/2008/mar/25/china.humanrights http://www.liberation.fr/actualite/monde/317327.FR.php) : le salut de la Chine doit venir des Chinois eux-mêmes. Et il faut cesser de diaboliser les Chinois (ce que par ailleurs le Dalai Lama se refuse à faire).

Un'intervista interessante sul mani dell'altroieri:

Amnesty: «No al boicottaggio»
Su Tibet e Olimpiadi di Pechino, parla Paolo Pobbiati, presidente di Amnesty International: «È l'occasione per non voltare più la testa di fronte ai diritti umani»
Tommaso Di Francesco

Abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Pobbiati, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International che ha coordinato il lavoro di ricerca e le campagne sui paesi d'Estremo oriente, specialmente Cina e Tibet, di cui è profondo conoscitore.
Amnesty dice «no al boicottaggio delle Olimpiadi, compreso quello della cerimonia di apertura», discostandosi dalla Lega dei diritti dell´Uomo con cui ha promosso la «moratoria della pena di morte» in occasione delle Olimpiadi di Pechino...
Quanto accade in Tibet è parte di una questione più ampia che riguarda tutta la Cina. L'impressionante sviluppo di questi ultimi venti anni non ha avuto una corrispondenza in una crescita anche nel campo del rispetto dei diritti. La Cina sta vivendo la contraddizione di una società che si sta modernizzando ma che non riesce a metabolizzare il dissenso, ovvero un aspetto assai importante di una società moderna. La risposta è spesso la repressione: in Tibet questa contraddizione è più evidente per le spinte autonomiste, ma la logica è la stessa che porta a colpire dissidenti, giornalisti, chi cerca di difendere i diritti dei propri concittadini, come avvocati, sindacalisti, rappresentanti di comunità. C'è poi una massa di decine di milioni di cinesi che, se rappresenta in quanto mano d'opera a basso costo uno dei motori del miracolo economico, di fatto rimane tagliata fuori dai suoi vantaggi e comincia a reclamare la sua parte. Proprio le Olimpiadi faranno sì che gli occhi del mondo siano da qui all'estate puntati sulla Cina e questo renderà maggiormente evidenti queste contraddizioni. Starà ai cinesi cogliere l'opportunità di affrontarle con una chiave diversa da quella repressiva, ma la comunità internazionale ha un ruolo molto importante nel supportare questo processo.
Conoscendo Cina e Tibet, quale giudizio dà dei moti di Lhasa?
La nostra posizione è netta ed è di condanna verso chi ha compiuto atti di violenza, ma lo è altrettanto per l'uso sproporzionato della forza da parte delle forze di sicurezza cinesi, anche verso chi manifestava pacificamente. Chiediamo che a tutte le persone arrestate possano essere garantiti i diritti fondamentali che spettano a chiunque si trovi in custodia o in detenzione in ogni parte del mondo e che possa essere l'Onu con una missione indipendente ad accertare quanto realmente avvenuto. Ma credo che ai tibetani spetti anche una risposta chiara sul loro futuro e se il loro destino potrà essere solamente quello di arrendersi al pensiero unico cinese. Come ogni popolo che si trova in situazioni analoghe, i tibetani sono esasperati dalla sistematica negazione dei loro diritti fondamentali e dall'altrettanto sistematico smantellamento della loro cultura e identità nazionale; in più sono schiacciati da una massa crescente di coloni han invogliati a trasferirsi in Tibet da un sistema di facilitazioni economiche e fiscali che dà loro vantaggi considerevoli. Teniamo presente che i tibetani in molte di queste zone fanno parte della fascia più povera ed emarginata della società. E' logico che a fermenti indipendentistici si vadano a mescolare ragioni di malcontento economico e sociale. Non è difficile immaginare che in Cina anche altri soggetti coglieranno questo momento. Oltre ai tibetani ci sono gli uighuri, popolazione di etnia turco-mongolica che vive nel Xinjiang, la regione più occidentale della Cina, che ha un movimento indipendentista anche più radicale di quello tibetano. Una chiave interessante di lettura è che la situazione sembra essere sfuggita di mano anche al Dalai Lama, da sempre sostenitore della più assoluta non violenza e del dialogo con i cinesi. È un elemento di novità. Pur essendo riconosciuto come leader indiscusso, c'è una generazione di tibetani che oggi è pronta a passare a metodi di lotta meno concilianti. In questo vedo non solo il rischio di una frammentazione e di una perdita di controllo delle frange più estremiste, ma quello più grosso di una sconfitta che è soprattutto della comunità internazionale. Che sta dimostrando di essere molto più capace di ascoltare chi impugna un fucile che chi chiede in maniera non violenta il rispetto dei propri diritti, come i tibetani hanno fatto sinora senza risultati. Come l'oblio nel quale sono cadute le proteste dei monaci birmani.
Che pensa sia del trasversale e ambiguo movimento «filotibetano» sia dei non limpidi «filocinesi» schierati con gli interessi del capitalismo globalizzato?
Quello che mi preme di più oggi è il rimarcare che la comunità internazionale sta rendendosi forse conto della pericolosità della sua sostanziale inazione negli ultimi due decenni. È forse il primo importante «effetto Olimpiadi», che però non sembra toccare ancora l'amministrazione Usa che, in concomitanza con i fatti di Lhasa, derubricava la Cina dai paesi maggiori violatori dei diritti umani, in una sorta di captatio benevolentiæ verso un partner economico decisivo in questi tempi. Non è solo la Cina a giocarsi molto in queste Olimpiadi: se la comunità internazionale non smetterà di voltare la testa di fronte alla situazione dei diritti umani per rivolgere lo sguardo solo verso le molte opportunità economiche che la Cina offre, l'enorme influenza su tutte le dinamiche globali che nel prossimo futuro questo paese avrà in misura crescente porterà l'intera comunità mondiale a rimettere in discussione il sistema di protezione e tutela dei nostri diritti fondamentali. Allora sì che sarà troppo tardi.

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