Articolo di Astrit Dakli tratto dal manifesto di ieri:
Non è difficile uccidere dei giornalisti. Fanno un mestiere che li espone all'odio e circolano indifesi. Si può perfino usare la loro uccisione per fare un regalo di compleanno, come quello che Vladimir Putin ha ricevuto ieri per i suoi 54 anni: la testa di Anna Politkovskaja, la più feroce critica del suo regime. Forse è un regalo avvelenato, che se lo sia ordinato da solo o che gli sia stato fatto da altri: tutti attribuiranno comunque al presidente russo la responsabilità di questo assassinio e non è gradevole neppure per un ex agente del Kgb vedere la propria firma messa in calce a un omicidio illustre - anche se in Russia uccidere giornalisti scomodi è ormai una tradizione. Poco cambia se, come è probabile, l'ideazione e l'attuazione di questo delitto vengono dalle alte sfere delle forze armate (di cui Anna Politkovskaja ha troppe volte messo a nudo la ferocia, l'incompetenza e l'avidità di denaro e di potere) più che direttamente dal Cremlino.
Non è stato certo difficile uccidere questa giornalista. Sparare nell'ascensore di casa sua a una donna priva di ogni difesa è un gioco da ragazzi; quanto all'inchiesta, già il fatto che l'omicida non abbia avuto problemi a lasciar sul posto pistola e cartucce e a farsi vedere da alcuni testimoni fa capire che essa non andrà lontano. Del resto, non ci sarà un'ondata di indignazione per questo omicidio. Chi denuncia le malefatte dei militari in Cecenia o le collusioni tra mafiosi, giudici e politici non è molto popolare: è solo un «rompicazzo», come Anna veniva elegantemente definita. Vladimir Putin nei mesi scorsi ha fatto un repulisti nella Procura generale, da tempo accusata da tutte le parti (compresa Anna Politkovskaja) di essere troppo al servizio del Cremlino: ma i nuovi arrivati, procuratore capo in testa, sono ancor più fedeli al presidente di coloro che sono stati rimossi. Qualcuno vuol scommettere sugli esiti di questa inchiesta?
Non è mai difficile uccidere dei giornalisti, soprattutto se sono persone libere, che vogliono fare il loro mestiere fino in fondo e raccontare le cose che il potere - quello dei grandi boss mondiali come quello dei piccoli boss di quartiere - vuole invece tenere nascoste. Due esempi freschi: ieri a nord di Kabul, in una zona che il regime afghano e la Nato definiscono «calma» e che è controllata da signori della guerra locali, sono stati uccisi due reporter tedeschi di Deutsche Welle. Volevano vedere cosa succedeva lì; ovviamente non avevano alcuna scorta. Il mese scorso in un carcere di Ashgabad (Turkmenistan) è stata uccisa Ogulsapar Muradova, giornalista turkmena molto critica del regime satrapico imposto da Saparmurat Niyazov al suo paese: non era accusata di niente, ma la sua voce dava fastidio - meglio arrestarla e strangolarla, senza neanche simulare, come a casa dell'amico Putin, un omicidio ad opera di ignoti.
P.S. La politica degli editori verso i giornalisti, qui a casa nostra, rivela (senza sangue e violenza, certo) la stessa ansia di normalizzare e conformare che sta dietro l'omicidio di Mosca. I giorni di blackout informativo che abbiamo alle spalle - lo sciopero dei giornalisti contro il precariato dilagante e per un nuovo contratto - testimoniano che anche nelle redazioni dei paesi «liberi» si preferirebbero più dita ubbidienti sulle tastiere e meno teste libere che pensano. Non è una bella prospettiva.
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